La Danza nel Medioevo
Nel linguaggio comune adoperiamo indifferentemente le parole ballo e danza. Infatti, siamo soliti esprimerci dicendo: “andiamo a ballare”; oppure “ieri ho danzato una serie di balli alla moda”.
La formazione di codesta terminologia risale al Medioevo.
Velocemente ricordiamo che per i Greci la danza era orchèsis, donde orchestra era la porzione semicircolare del teatro dinanzi alla scena in cui agiva il coro e, di qui, l’altro termine coreutico per indicare, ancora sotto diversa forma, la danza in quanto proprio il coro eseguiva gli stasimi della tragedia cantando e danzando.
Nel mondo romano, all’arcaica Béllicrepa istituita da Romolo come esercizio preparatorio alla guerra (Bellicrepus = Bellum-Crepitare cioè “grido feroce misto a rumore delle armi”), si affermò e si diffuse la Pantomima, denominata più propriamente Fabula Saltica perché derivata da un’altra arcaica danza: la Saltatio, di tipo rurale che, da saltus = luogo selvoso, indicava un rituale legato alla crescita delle piante.
Il Medioevo assiste al declino della Pantomima, sotto l’incalzare dei popoli barbarici che premono ai confini dell’Impero e che riportano in auge danze ancestrali, dal forte sapore pagano contro cui la Chiesa dell’Alto Medioevo invano si opporrà.
Ricompaiono così le “Danze della fertilità”, con il loro corredo di motivi erotici e di significati magici, ed al loro seguito, nel volgere dei secoli, via via si diffondono le “Danze mascherate”, le “Danze demoniache”, le “Danze del fuoco”, le “Danze delle spade”.
Eventi apocalittici quale il flagello della peste nera (anno 1348), sulla scia di precedenti e sfrenate “baladoires” (letteralmente “baldorie”), daranno l’occasione allo svilupparsi di balli turbolenti, con ritmi ossessivi che conducono all’estasi collettiva (“Danza Macabra”; “Ballo di San Vito”, e i corali deliri delle “Tarantole” o “Taratolate”).
Si torna a prediligere il nudo con danzatrici vergini e con la finzione del sesso, mentre tutte le feste vengono mano a mano a collocarsi ed a concentrarsi in determinati periodi dell’anno: calendimaggio; solstizio d’estate; San Giovanni; vendemmia; carnevale.
Il passaggio dal mondo classico a quello medio viene contrassegnato da una mutazione lessicale: il classico saltare viene sostituito dal nuovo ballare che fa la sua prima apparizione in Sant’Agostino. Quindi la denominazione ballo per indicare l’evento orchestico, dal francese antico baler.
Comunque la tradizione “saltatoria” non scompare del tutto, essa diviene appannaggio dei joculatores, i giullari, che la eseguono nelle piazze e sul sagrato delle chiese e, al tempo stesso, essa viene favorita e praticata dentro la chiesa, in onore di Dio (Lodate Iddio nel suo santuario…lodatelo con timpani e con la danza. Salmo 150)
Numerose descrizioni di balli liturgici ci sono pervenute: a Sens, in Francia, la notte di Pasqua, l’arcivescovo onorava il suo appellativo di “presule” (etimologicamente prae silit = colui che inizia il ballo o che balla davanti) conducendo una danza rituale nel chiostro e poi nel coro, innanzi all’altare (choròs, il “coro orchestico” di greca memoria).
Successivamente, sempre all’interno della cattedrale, al ballo si associava il gioco. I canonici, a passo di danza e cantando la sequenza Victimae paschali laudes, si lanciavano l’un l’altro una grossa palla, seguendo un percorso a forma di labirinto disegnato sul pavimento della navata centrale.
Gli stessi Padri della Chiesa, Tertulliano, San Gregorio Nazianzeno, San Basilio, non condannavano il ballo. Gregorio Magno consigliava al vescovo inglese Meletius di permettere di ballare ai catecumeni del suo paese dentro o intorno alla chiesa, mentre San Basilio esaltava il ballo come occupazione prediletta degli angeli in cielo.
La stagione “saltatoria”, a causa di inevitabili degenerazioni, contaminazioni tra sacro e profano (orge del popolo sulle tombe, le “feste dei folli”, le “feste dell’asino” ecc.), fu troncata da proibizioni stabilite dai concili di Laodicea, di Agde, di Toledo fino al rigore dell’anatema e della scomunica contro i canti diabolici sulle tombe dei morti e joca et saltationes ispirate dal demonio o inventate dai pagani.
Dopo l’anno mille, a cavallo dei secoli XII e XIII, nel periodo storico legato ai Trovatori, alle Crociate, alla nascita dei Comuni, assistiamo al rifiorire, con nuova ricchezza di forme e di ritmi, dell’arte coreutica che assume ancora un altro nome: danza (dal germanico danezzan, antico francese dencier, spagnolo danzar, tedesco tanzen, antico slavo tanec) che, nei linguaggi romanici, viene a collocarsi accanto alla vecchia dizione ballo ed a distinguersi ed a contrapporsi ad altre voci germogliate in ambito europeo:
- carola (da corolla; francese carole)
- ronda (francese ronde; latino rotundus)
- brando (germanico brand; francese brande)
- ridda (alto tedesco ridan)
- tresca (germanico threskan)
Sin qui abbiamo seguito l’evolversi di un processo semantico, abbiamo cioè visto come, sotto l’effetto di vari eventi, cambiava la nomenclatura di una medesima manifestazione artistica: la danza nella lunga stagione del Medioevo europeo.
Cerchiamo ora di scoprire cosa ci resta della danza medievale.
Se diamo uno sguardo alla trattatistica sul tema ci accorgiamo che essa non può soccorrerci in quanto quella conservataci è molto tarda; siamo quasi alle soglie del Rinascimento. Intendiamo riferirci ai famosi trattati De arte saltandi et choreas ducendi (ca. 1420) di Domenico da Piacenza (o Domenichino da Ferrara), De praticha seu arte tripudii vulgare opusculum (conservato in sei redazioni diverse variamente datate tra il 1460 e il 1475) di Guglielmo Ebreo e Libro dell’arte del danzare (1465) di Antonio Cornazano, gli ultimi due discepoli del primo.
Indirettamente ci viene incontro Johannes de Grocheo, teorico musicale francese della seconda metà del sec. XIII, con il suo singolarissimo trattato De musica nel quale, delle tre specie di musica (mundana, humana e instrumentalis) codificate da Boezio, rifiutò le prime due e circoscrisse il suo studio solo all’instrumentalis. Buon per noi in quanto, parlando della musica profana strumentale, ci riporta nomi di danze e, sia pure sommariamente, ce ne descrive le forme.
Pertanto, la ricerca delle informazioni dobbiamo orientarla su altre fonti e non sempre pertinenti alla materia oggetto della nostra indagine. Tali fonti sono rappresentate dai preziosi codici miniati della letteratura cortese, e da quelli altrettanto importanti della musica profana.
Utili segnalazioni le ricaviamo inoltre dagli apparati iconografici: affreschi, dipinti, miniature, che riproducono scene di ballo, al chiuso o en plein air, che, talvolta in maniera elementare, altre volte con dovizia di particolari, ci mostrano la composizione cavalieri-dame, il loro atteggiamento e le loro movenze, nonché la formazione strumentale che esegue le musiche del ballo.
Diamo un fugacissimo cenno di alcune di queste fonti secondarie:
Dipinti e Miniature
- l’affresco intitolato "Gli effetti del buon governo" di Ambrogio Lorenzetti, nel Palazzo Pubblico di Siena
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l’affresco intitolato "Danza delle donzelle nel giardino d’amore" di Andrea di Bonaiuto nella Cappella degli Spagnoli di Santa Maria Novella a Firenze
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l’affresco “Danza all’aperto” nel ciclo pittorico del Castello del Buonconsiglio di Trento
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un riquadro della miniatura della cantiga 120 delle "Cantigas de Santa Maria" di Alfonso X “El Sabio” nel codice b. I. 2 della Biblioteca del Monastero dell’Escorial
- una immagine da Le Roman de Fauvel del celebre miniaturista Geoffroy de Saint-Léger.
- miniatura nel “Codice d’Amore” di Ermengol de Béziers (XIII sec.) Madrid – Biblioteca del Monastero dell’Escorial.
Testi musicali
- lo Chansonnier du Roi della Biblioteca Nazionale di Parigi
- il Codice italiano (MS Additional 29987 fols. 55v e segg.) nel British Museum
- il Llibre Vermell dell’Abbazia di Montserrat in Catalogna.
Alla luce di quanto detto finora, tentiamo di delineare un profilo dell’arte coreutica medievale. Dalla variegata terminologia poc’anzi ricordata (carola, ronda, brando, ridda, tresca), arguiamo che esistevano vari modi di danzare: in tondo; a fronte; a catena aperta.
Dal punto di vista ritmico, sappiamo ancora che le danze medievali si dividevano in:
- danze vivaci e saltellate (proprie dei contadini e del popolo in generale con un più accentuato sviluppo pantomimico);
- danze camminate o strisciate (proprie del ceto nobile e quindi cortigiane)nel cui ambito, sotto il profilo tecnico, individuiamo ancora due specie fondamentali per l’evoluzione artistica:
- danze “a carola” (in circolo, corali);
- danze “a coppia” (in “fronte” o in “linea”) tra cui si configura la danza di corteggiamento.
- Su tali moduli nasce la danza (francese e italiana) del Medioevo della quale purtroppo non conosciamo la coreografia che, dalle scarne descrizioni tramandate, doveva essere comunque assai semplice. Tutto ciò che possiamo ricavare dalla sola terminologia ha un valore puramente semantico, vale a dire che:
- balade e ballata, stanno genericamente per ballare, ballo;
- rondeau, rotta, rondellus, rond, round stanno per danza in tondo;
- virelai (dal verbo virer) sta per “torcere”, quindi danza con torsione;
- carola, karol, querole, stanno per danza in cerchio;
ma, al di là di ciò, le parole nulla ci svelano sul numero dei passi, sulle movenze, su eventuali salti ecc.
Altra cosa è invece il discorso sul piano musicale. La qualità ed il numero dei testi musicali in nostro possesso ci consentono di ricostruire almeno quattro differenti tipologie coreutiche: danze vocali; danze strumentali; danze sacre; danze macabre.
Le danze vocali sono le cosiddette “canzoni a ballo” e, in senso lato, anche le ballate. Esempi classici di danze vocali sono: A l’entrada del tens clar, Souvent souspire, e Kalenda maya.
Il testo del primo di questi esempi parla di ciò che avviene all’ingresso della primavera allorché la “regina d’aprile” indice un ballo aperto a tutte le belle fanciulle, ma dal quale debbono stare alla larga in primis il re vecchio e geloso e, con lui, tutti gli altri mariti gelosi: Via, via, gelosi, lasciateci, lasciateci danzare tra noi! ripete allegramente il ritornello tutto femminile.
Anche Kalenda maya può essere ricompresa tra le danze vocali. Il contenuto poetico non richiama lieti eventi, bensì un amore infelice dell’autore, il trovatore Raimbaut de Vaqueiras, per donna Beatrice, sorella del Marchese del Monferrato. Ma la razo che precede la composizione ci tramanda il motivo occasionale di quest’opera che fu appunto composta sulla musica di una estampida (ovvero di una danza) che due suonatori di viella, venuti da Parigi, eseguivano, con grande successo, proprio alla corte dove lo stesso Raimbaut soggiornava triste e taciturno.
Le danze strumentali sono danze senza testo poetico, quindi musica strumentale vera e propria. Nel citato De musica, Johannes de Grocheo parla di tre diversi tipi di danza medievale: Estampie, Ductia e Nota.
L’estampie rappresenta l’unico genere di danza di cui disponiamo di un vero e proprio corpus musicale composto da 16 brani, provenienti da due differenti fonti di epoche diverse. Otto composizioni, del secolo XIII, sono francesi e compaiono nello Chansonnier du Roi (vedi Fonti di musica francese) e sono tutte chiamate Estampie, nome questo che è preceduto da una numerazione e seguito da un’aggettivazione Real o Royal. Le altre otto risalgono al secolo XIV e sono inserite in un codice italiano (fiorentino), acquisito dalla BL di Londra (vedi Fonti di musica italiana), con l’intestazione Istanpitta e l’aggiunta di una titolatura più specifica: Ghaetta; Chominciamento di Gioia; Isabella; Tre Fontane; Belicha; Parlamento; In Pro; Principio di Virtù.
L’argomento si complica quando si passa alla ricostruzione delle altre due danze la Ductia e soprattutto la Nota. Infatti se si escludono i testi inequivocabilmente contrassegnati dal nome “Estampie” o “Istanpitta”, l’attribuzione degli altri brani strumentali, privi di un titolo, pone più di qualche problema ai musicologi.
Comunque l’intero corpus di musiche strumentali riferibili alla danza medievale europea consta, ad oggi, di 46 brani così distribuiti per nazionalità:
- Francia n. 15
- Italia n. 23
- Inghilterra n. 6
- Cecoslovacchia n. 2
Le danze italiane, oltre alle già menzionate n. 8 Istanpitte, comprendono (citiamo le più conosciute): n. 4 Saltarelli; n. 1 Trotto; Lamento di Tristano e Rotta; Manfredina e Rotta; Chançoneta Tedescha.
Per danze sacre oggi intendiamo, non già le danze di cui si tramanda il lontano ricordo di esecuzioni in precisi e ben indivituati momenti della liturgia cristiana, ma più semplicemente di “canzoni a ballo” che i pellegrini erano soliti eseguire, intorno al fuoco, nelle lunghe veglie di preghiera dinanzi al Santuario della Vergine nera di Montserrat, la Moreneta, in Catalogna.
Il Llibre Vermell, il Libro Vermiglio, codice n. 1 dell’Abbazia di Montserrat, redatto nel sec. XIV, (vedi Fonti di musica spagnola) porta al suo interno una piccola raccolta musicale nella quale i seguenti brani hanno precise annotazioni con riferimenti ad una danza circolare, “in tondo”:
- Stella splendens riporta la dicitura: ad trepudium rotundum
- Los set goyts riporta la dicitura: a ball redon
- Polorum Regina riporta la dicitura: a ball redon
- Cuncti simus concanentes riporta la dicitura: a ball redon
L’intento dei monaci, come ricorda l’amanuense del codice, era quello di assecondare il desiderio dei pellegrini, che si erano sobbarcata una lunga ed impervia ascesa, di trascorrere in letizia il tempo di attesa dell’apertura del santuario, ma anche di incanalare quell’esultanza in un repertorio di canti che avrebbero contribuito all’elevazione dello spirito senza profanare la sacralità del luogo.
Le danze macabre, infine, s’inquadrano nella produzione artistica che, anche con intento di esorcizzarla, si ispirava alla “peste nera” che, nel 1348, letteralmente falcidiò la popolazione europea.
Questa danze, intitolate genericamente “Danza della Morte”, “Danza dei Defunti”, “Danza degli Scheletri”, “Totentanz”, “Der Toden Tanz”, costituiscono delle caròle che possono ricomprendersi nella categoria delle danze estatiche, cioè sintomatiche di stati psicomotori anomali.
L’esempio più celebre di danza macabra (termine derivato probabilmente dall’arabo makràb = cimitero) lo ritroviamo nell’ultimo componimento musicale del Llibre Vermell, intitolato appunto Ad mortem festinamus.
Fonti bibliografiche:
- C. Sachs, Storia della danza. Il Saggiatore, Milano 1966
- G. Tani, La danza e il balletto. Compendio storico-estetico. Nuova Pratiche Editrice, Parma, 1995
- B. Sparti, Guglielmo Ebreo of Pesaro - De pratica seu arte tripudii (Edited by Barbara Sparti). Clarendon Press, Oxford, 1993
- T. J. McGee, Medieval instrumental dances. Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis, 1989
(Testo mandato in rete il 6 novembre 2004, revisionato dall’autore il 31 gennaio 2010)